Buona giornata, internauti. E che la Forza diradi tutte le calure del mondo, specie quelle dentro alle nostre teste bacate. Su ‘Infinity fog’ c’è il festival del prog-metal: da non perdere.
Questa sera il caldo è letale. Per sopravvivere psicologicamente al colpo sono in terapia d’urto, con le cuffie in testa e gli Axxis a palla. Quando ci vuole ci vuole. Stasera quindi: hevvy-metal e zen. Piazzo un pezzo di capitolo tratto dal libro ‘Godzilla e altri sogni – Blue Oyster Cult’.
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Un esempio di come l’azione musicale può smuovere la mente verso direzioni fantastiche? Sono un esperto in materia. Uno su tutti, dopo le prime due canzoni in stato ‘zen naturale’, recentemente, ascoltando Some Enchanted Evening credo per la milionesima volta, scatta Astronomy. La mente (libera da effetti dopanti di qualunque tipo, tengo a precisarlo, quindi nel caso specifico la psicologia contorta è tutta farina del mio sacco sballato) si è posta in uno stato di attesa.
Le prime note, lente, hanno dato vita a un’immagine di mondo primordiale, saturo di monti e foreste vergini. La situazione è di calma apparente, cielo carico di nubi da tempesta imminente. L’intro musicale prosegue, i bassi sono pieni e la struttura del pezzo inizia a prendere forma mentre il cielo è un blocco unico e i lampi scaricano in linee spesse e dirompenti. Il cambio di ritmo è potente come una molotov degna di Dei della Guerra che esplode, il cielo si squarcia, strappato da altrettali divine mani che si aprono il campo pronte a combattere. Il mondo primordiale subisce l’entrata come calpestato da giganti, rimpicciolisce fino a sparire lasciando la primarietà di soggetto ai due divini (o alieni) antagonisti. Chitarra, voce e base d’accompagnamento si completano in un blocco unico crescente, mobile nella schermaglia verbalmente muta dei contendenti.
Mai letto ‘Signore della Luce’ di Roger Zelazny? È un romanzo del 1967, attuale ancora ora come lo sarà fino a data da destinarsi, in cui il vecchio saggio della fantascienza riporta e spiega gli dei Indù in un futuro fantastico e lontano, dove scienziati terrestri si sono dati poteri semidivini grazie alla loro superavanzata tecnologia e il nome degli antichi dei. Una pietra miliare della letteratura SF. Se vi capita tra le mani…
Ero rimasto ai due Dei, e al primo ‘solo’ di chitarra lo scontro inizia. La volta planetaria prende fuoco mentre le foreste sottostanti si aprono e schiacciano come un prato d’erba spazzato dal vento di bora. Negli scuri generici, lampi di luce e flash più duraturi, che vanno per tutte le tonalità sfolgoranti dal giallo al rosso, accompagnano i due samurai-maghi con tanto di corazzature tecno-medioevali nel loro susseguirsi di colpi e parate. Katane (spade lunghe) immense ed energie universali si scontrano e infrangono in una lotta che non lascia premesse di un vincitore, nella solita metafora ritrita sul dualismo e sull’equilibrio: bene/male, Yin e Yang, maschile/femminile e via così.
Si ritorna al riff portante con la sua magica lentezza, una dinamo che gira e gira per ricaricare le batterie e arrivare alla prossima esplosione di energia. I due Dei sono rimasti ansanti, invisibili, la calma apparente del mondo primordiale è l’icona classica, scontata, di un’eventualità post-catastrofe. Il nero del cielo è minaccioso, i presagi terrificanti. Lo scontro e la musica ampliano l’aspettativa e la portata oltre il cielo, verso l’universo, con la visuale che si innalza ‘oltre’ a inglobare pianeti, un sole sbiadito e appena presente nonostante tutto, e un vuoto di punti stellati che non ha senso osservare. All’assolo portante, duraturo, favoloso, che Buck Dharma inizia similmente a un gong tibetano, piazzando ulteriori poche e significative note simili a mazzate su un incudine per poi scatenarsi in una sonata dar far invidia allo stesso Creatore di tutto, per gli Dei è nuovamente battaglia. Figure ancora più gigantesche all’apparenza, nel concerto universale sono solo esplosioni in allontanamento su un pianeta. La musica prosegue e invade l’Intero, l’universo trema, prende ad aprirsi e a perdere le prime briciole, a essere percorso da immense e potenti energie che spaccano il continuum come un foglio di giornale strappato. Il ‘nero del nulla’ prende a farsi largo nel ‘nero dell’universo’ che sta surclassando i colori della battaglia, in uno scalare di sovrapposizioni in cui, finita la musica, finisce la visione… nel niente.
È silenzio. I pochi attimi successivi paiono secoli di fermo-immagine in cui nulla pare crescere in se stesso. È un’assurdità visiva: fissità-mobile… ma è proprio lei, è così, indescrivibile almeno fino a che un punto luminoso, subito dopo riconoscibile in una figura dorata seduta nella posizione del fior di loto, s’ingrandisce fino a poterlo discernere in un Buddha immobile con la chitarra in grembo.
Parte la canzone successiva, il Buddha apre gli occhi, sorride. Lascia scivolare la chitarra nel vuoto sotto di lui, si guarda la maglietta in cui le lettere B O C sbroccano in raggi come solida sostanza e si mette a ballare (non serve un piano d’appoggio) seguendo il nuovo agglomerato di note…
Ma questa sarà un’altra storia, o un’altra rock-visione.
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